Ariovisto Carnovale è un troglodita mentecatto che sfoga le sue pulsioni sessuali in disegni osceni e gloriose raffigurazioni priapiche. Un giorno, chissà poi perché, qualcuno decide di fare di queste sconcezze delle opere d’arte e, detto fatto, Carnovale diventa il nuovo nome di punta dell’arte contemporanea.
Intanto, Alceste Santacroce si è preso una pausa dal lavoro e veste i panni di un distaccato Cicerone per un gruppo di ricchi sprasolati¹ in una afosa Roma di mezza estate. Le cose procedono… strane, tra serate in centro e incontri ravvicinati con il vuoto esistenziale, finché le strade dei due protagonisti non arrivano a incrociarsi.
Era inevitabile, dopotutto.
La notorietà di Carnovale è alle stelle tanto quanto le quotazioni delle sue opere, e Sant’Alceste è pur sempre il più grande scrittore di gossip, checché ne dicano i suoi rivali. Quando il nostro vede coi suoi occhi le creazioni di Carnovale decide di indagarne le origini, scoprendo in quella realtà primitiva qualcosa di più sull’arte che sull’artista, ma soprattutto su se stesso. Nella fattispecie: cosa rende un artefatto un’opera artistica? Cosa rende un artista quello che è? Quale rapporto sussiste tra contenuto e contenitore? È sufficiente il solo fatto di essere esposti in una galleria?
Questi ed altri dubbi si sollevano al passaggio di Alceste nella ruralità da cui proviene Ariovisto. Inoltre, apprendiamo che i due hanno in comune più di quanto fosse lecito aspettarsi: prima di tutto, entrambi parlano la stessa lingua (o perlomeno riescono a intendersi molto bene) e questo non può che riflettersi in una prospettiva condivisa sulle cose per come sono e per come appaiono, in una certa attrazione verso l’annichilimento sociale e, non ultima, in una faccenda nel finale dell’albo che ne svelerà al tempo stesso somiglianze e differenze. Provo a spiegarmi meglio e senza troppi spoiler: la morte, che potrà essere o meno la fine, ma è senz’altro un cambiamento, è l’irruzione del reale — decisivo, inappellabile — nel mondo di illusioni, capace di dare un senso — se non definitivo, almeno compiuto — al tutto.
Inoltre, morte, rovine e rinascita (ovvero lo scorrere del tempo e la sua negazione) costituiscono per adesso le uniche costanti all’interno di una narrazione che si è mostrata quantomeno nebulosa (caratteristica comunque niente affatto negativa, beninteso), fatta di riferimenti a cose ed eventi non ancora realizzati — o forse sì, ma lontano dai nostri occhi —, fugaci apparizioni, ritorni dell’uguale e fili protesi nel vuoto, ma soprattutto di personaggi che, ad uno ad uno, stanno popolando il palcoscenico di quest’opera enigmatica. E proprio come un grande enigma Eternity vol. 3 costringe il lettore a un ritorno continuo sulle pagine (e anche un po’ in se stesso) alla ricerca di un significato che sembra a portata di mano, ma sempre un centimetro troppo in là per essere completamente afferrato.
Dopo aver raggiunto il sublime con le sue precedenti opere, ora Bilotta sembra puntare all’ineffabile, alla sospensione del giudizio per mancanza di riferimenti, al destabilizzante, ponendo il fruitore nelle stesse condizioni di chi osserva le opere di Ariovisto Carnovale. A mio avviso, il modo migliore per goderne rimane dunque uno soltanto: stare al gioco, lasciarsi un po’ sedurre e un po’ spiazzare da questa creatura obliqua.
¹: l’aggettivo, inserito più volte all’interno dell’albo a mo’ di indizio, arriva da una canzone di Lucio Dalla che si intitola “Quale Allegria”, dall’album “Come è profondo il Mare” (RCA, 1977).
La vita appesa ai chiodi delle opere immortali è il terzo numero di Eternity, pubblicato da Sergio Bonelli Editore per l’etichetta Audace.
Alessandro Bilotta (autore) è coadiuvato da Francesco Ripoli (disegni) e Adele Matera (colori). La copertina è firmata da Sergio Gerasi.
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